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IL MITO DELL’ASSUNZIONE DIRETTA
E LA PRATICA DELL’ILLECITO

C’era da aspettarselo che questo governo non avrebbe lasciato passare le vacanze senza approfittare di assenza e disattenzione degli insegnanti per far passare qualcosa di impopolare che riguardasse la sua “riforma”. Ed è toccato proprio alla materia del reclutamento, perché di questo tratta il decreto emesso, non come molti si aspettavano o di come probabilmente reciterà il titolo, della nuova formazione degli insegnanti: questa in realtà è rinviata ad un ulteriore provvedimento dentro un sistema a scatole cinesi. E ciò dimostra ancora una volta, anche a chi non lo avesse capito, che ciò che stava a cuore a questo governo non era e non è tanto migliorare la formazione del corpo docente ma introdurre quell’assunzione diretta che dovrebbe essere la panacea aziendalista di tutti i mali. Come se il precariato che si è accumulato in questi anni fosse dovuto al reclutamento pubblico e non a due anni di mancate assunzioni a fronte di almeno settantamila pensionamenti avvenuti tra il 2001 e oggi, tutti su posti di organico di diritto e che si aggiungono ai numerosi posti dell’organico di fatto, a loro volta lievitati per i tagli operati sulla carta per far quadrare i bilanci ma poi impossibili da attuarsi realmente se non cacciando i ragazzi dalle scuole.

Ma, ammesso e non concesso che il ministro riesca ad aggirare la norma costituzionale che prevede che ogni incarico pubblico venga dato in base ad un concorso pubblico, con relativa graduatoria, gabellando per concorso a posti un concorso di ammissione a un corso universitario abilitante o di specializzazione che dir si voglia, (cioè, per intenderci, il superamento del numero chiuso), l’assunzione diretta rischia di rivelarsi un mito più che uno strumento facilmente praticabile. Il metodo dell’assunzione diretta funziona o in epoche di forte espansione scolastica o in casi di penuria di insegnanti. Non è un caso che in Europa il metodo sia in uso in Gran Bretagna e Olanda, due paesi, appunto, in cui gli insegnanti scarseggiano. Mentre da noi tutte le volte che ci si è avviati su questa strada, le cose anziché semplificarsi si sono complicate: nel caso delle supplenze attribuite con enfasi alle scuole dalla Moratti appena arrivata i dirigenti hanno dovuto ripiegare sulla costituzione di commissioni provinciali che si occupassero di mettere in ordine le nomine se no sarebbe stato il caos. Il fatto è che in Italia di aspiranti all’insegnamento ce ne sono ancora molti e che essi presenterebbero domanda in tutte le 10.000 scuole della Repubblica se fosse possibile. Alcuni mesi fa Trento e Bolzano avevano ventilato l’ipotesi di procedere ad un limitato numero assunzioni in ruolo in virtù delle prerogative di autonomia che la legge loro riserva: hanno dovuto soprassedere pena il rischio che, saputa la notizia, quattrocentomila aspiranti da tutt’Italia dirottassero le loro domande nelle vallate atesine.

Probabilmente il Ministero conta di contenere il fenomeno contenendo il numero delle ammissioni ai corsi (tanto più che solo il 25% dei posti fissati ogni anno per la nomina saranno dati a questo meccanismo mentre il restante 75% rimarrà fino all’esaurimento, previsto in vent’anni, di concorsi e graduatorie permanenti) e confidando che l’albo professionale regionale, a cui ogni scuola accede, eviti l’invasione di domande nelle singole scuole, sempre che la scelta della regione sia obbligata dalla sede universitaria (altro ostacolo costituzionale: la validità nazionale del titolo abilitante!) se no addio programmazione. In ogni caso, dal momento che la programmazione riguarda non solo le scuole pubbliche ma anche le paritarie, il numero di coloro che premerà sulle scuole pubbliche, sempre preferibili e preferite, sarà sicuramente, già dalla prima applicazione, maggiore dei posti disponibili mentre al contrario la scelta dei capi di istituto sarà “a capocchia” dal momento che l’albo, a differenza della graduatoria, non impone un ordine obbligatorio delle convocazioni.

Se si tiene conto che il percorso prevede che alla laurea triennale si aggiunga la laurea specialistica biennale e un biennio di formazione lavoro, intorno ai 21 anni un ragazzo al terzo anno di università che aspiri a fare l’insegnante dovrà prevedere in quale regione un paio di anni dopo ci saranno più possibilità, iscriversi in una università di questa regione, superare lo sbarramento del numero chiuso. Se tutto andrà come deve a 25 anni la persona in questione dovrà solo sperare che un capo di istituto si accorga di lui e lo chiami. Dopo di che dovrà sperare che il suo lavoro di insegnante sia di gradimento del tutor che lo sorveglia, del comitato di valutazione, ma soprattutto del dirigente scolastico. Dopo di che la promessa è che a 27 anni uno possa essere di ruolo, naturalmente sperando che nel frattempo la scuola in questione non perda classi, se no potrebbe anche sentirsi dire “Lei andrebbe benissimo, ma quest’anno abbiamo una classe in meno….”. Nel caso non fosse confermato ricomincerebbe sperando in una nuova chiamata dall’albo, il quale a quel punto tra nuovi arrivi e mancate conferme risulterà sicuramente assai poco “programmato”.

Naturalmente in tutto ciò è evidente il risvolto sindacale. Non nel senso di una maggior difficoltà del sindacato, che anzi aumenta il suo ruolo non foss’altro perché il disordine pubblico, che è sottinteso in misure di questo genere, aumenta il ricorso a forme sostitutive di riorganizzazione o privata o, più spesso, cooperativa: in Gran Bretagna gli aspiranti sono già “catturati” dal sindacato fin dai corsi universitari. Ma nel senso del peggioramento di una serie condizioni di lavoro: per i precari attuali innanzi tutto i quali si vedono ridurre del 25% le già poche possibilità di nomina in ruolo; per i vincitori di concorso, in modo particolare i quali si vedono ridurre le possibilità del 50% (essendo le quote di nomina 25% nuovi specializzati, 25% concorsi, 50% graduatorie permanente). E anche per i nuovi aspiranti per i quali abolendo le graduatorie diventa evanescente il valore abilitante del titolo, che di fatto non è tale se non è confermato due anni dopo dal dirigente scolastico; i quali negli anni di formazione lavoro saranno insegnanti a tutti gli effetti ma non saranno trattati come tali; per i quali l’anno di prova è praticamente portato da uno a due anni e con conseguenze più pesanti nel caso di mancato superamento. E infine, diciamocelo, a chi non è venuto in mente che questa formazione lavoro non sia altro alla fine che un periodo di arruffianamento del dirigente scolastico per garantirsi l’incarico a tempo indeterminato?

Insomma sul piano dell’organizzazione scolastica l’assunzione diretta risponde più ad un principio ideologico, in omaggio alla “i” di impresa, che ad una soluzione efficace. Sul piano del reclutamento non promette di dare risultati migliori soprattutto se restano aleatori e bassi i numeri delle immissioni in ruolo e certe invece le prospettive “riformatrici” di riduzione del personale.

In compenso sul terreno di corruzione e nepotismi se ne potranno vedere delle belle.

Pino Patroncini

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