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N. ...................
Reg.Dec.N. 2
Reg.Ric.
ANNO 2003

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza plenaria, ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n.r. 2 del 2003 dell’Adunanza plenaria, proposto dal Ministero ----omissis----, , e Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentati e difesi dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di ----omissis----, nonché dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria ex lege, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12,
contro
il sig. ----omissis----, rappresentato e difeso dall’avv. ----omissis----
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale ----omissis----.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’appellato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Vista l’ordinanza n. 650/02, in data ----omissis----
Visti gli atti tutti della causa;
Designato relatore, alla pubblica udienza del 10 novembre 2003, il consigliere ----omissis----
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
FATTO
1. Il ricorso in appello in esame è proposto dal Ministero ----omissis----. È stato notificato al sig. ----omissis----il 5 novembre 1996 e depositato presso la Segreteria del Consiglio di giustizia amministrativa ----omissis----.
2. È chiesta la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale ----omissis----, pubblicata l’otto luglio 1996.
3. La decisione in questione ha annullato il decreto 31 maggio 1994 del direttore generale ----omissis---- recante la sanzione della destituzione dell’appellato, ai sensi dell’art. 84, lett. a), del d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, e dell’art. 20 della legge n. 157 del 13 maggio 1975.
L’annullamento è stato pronunciato per difetto di motivazione.
4. La sentenza è stata riformata, sull’appello in esame, con decisione del Consiglio predetto n. 5 del 24 gennaio 2000, per essersi ritenuto adeguatamente motivato il decreto.
5. Con la stessa decisione, sono stati esaminati i motivi assorbiti, riproposti con appello incidentale, e sono state respinte le censure riguardanti la competenza ad emanare il provvedimento e le modalità di espressione del voto in commissione di disciplina. Sulla terza censura, relativa al mancato rispetto del termine di cui all’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, è stata disposta istruttoria.
6. All’esito di questa, con ordinanza n. 650 del 2002, il ----omissis----ha ripercorso le fasi del giudizio e, in ordine alla eseguita istruttoria, ha rilevato che il termine di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, se riferito alla data di contestazione degli addebiti del 3 dicembre 1993, sarebbe stato superato. Ha, in relazione alla questione in esame, esplicitato le ragioni per le quali potrebbe dubitarsi della soluzione sinora seguita dalla giurisprudenza pressoché unanime, circa la cumulabilità dei due termini, stabiliti dall’art. 9 citato, per l’inizio del procedimento, entro 180 giorni dalla conoscenza della sentenza di condanna dell’impiegato pubblico, e per la conclusione di questo nei successivi 90 giorni.
7. In vista dell’udienza pubblica, hanno prodotto memoria la parte resistente e, tardivamente, ma con l’assenso della controparte, le Amministrazioni ricorrenti in appello.
8. All’udienza del 10 novembre 2003, dopo gli interventi delle opposte difese, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Delle varie questioni poste con gli originari ricorsi introduttivi e riproposte in questo grado, è ancora da risolvere quella inerente all’interpretazione dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19.
2. Questa disposizione, per quel che qui interessa, disponeva che la destituzione del pubblico dipendente, dopo una pronuncia di condanna in sede penale, poteva essere inflitta all’esito di procedimento disciplinare. Il procedimento doveva “essere proseguito o promosso entro centottanta giorni” dalla conoscenza, da parte dell’amministrazione, della sentenza irrevocabile di condanna “e concluso nei successivi novanta giorni”.
3. Nel caso in esame, l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza della Cassazione, ma nella sola parte dispositiva, il 29 novembre 1993. Ha contestato l’addebito all’impiegato con nota del 3 dicembre, ricevuta il 6 dicembre. Ha concluso il procedimento, dopo pronuncia della commissione di disciplina del 29 marzo 1994, con il provvedimento di destituzione nella data del 31 maggio 1994.
È stato, perciò, osservato il termine complessivo di duecentosettanta giorni, derivante dalla norma di cui s’è detto, ma non il termine di novanta giorni, se si dovesse aver riguardo alla sola data di presumibile (perché fatta senza conoscenza dell’integrale sentenza irrevocabile dell’ultimo giudice) contestazione degli addebiti.
4. Questa Adunanza plenaria ha affrontato lo specifico problema con le decisioni nn. 4, 5 e 7 del 25 gennaio 2000, stabilendo che il secondo termine di novanta giorni decorre dalla ”scadenza virtuale” del primo, sicché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di duecento settanta giorni desumibile dalla legge.
A questa conclusione appare essersi adeguata la giurisprudenza successiva (C.G.A.R.S. 11 giugno 2002, n. 308; Sez. VI 13 maggio 2002, n. 2550, 22 marzo 2002, n. 1651 e 18 aprile 2001, n. 2339; Sez. IV 1° febbraio 2001, n. 369 e 26 giugno 2000, n. 3605; Ad. pl. 26 giugno 2000, n. 15), richiamata, in parte, anche dall’ordinanza di remissione.
5. Dubita, come s’è detto, di questo indirizzo ----omissis----con la suddetta ordinanza, che segnala talune osservazioni che occorre, perciò, approfondire.
Viene rilevato, sul piano letterale: a) che sono contemplati due termini “distinti e autonomi”, l’uno per l’inizio, l’altro per la conclusione del procedimento disciplinare; b) che l’inciso “nei successivi novanta giorni” sembra collegarsi al solo inizio del procedimento mediante contestazione degli addebiti; c) che manca un riferimento univoco che consenta di individuare un unico termine di duecentosettanta giorni.
Sul piano logico e sistematico, si aggiunge, va posto in risalto che i due termini rispondono a finalità diverse, sicché non possono essere considerati unitariamente.
6. La precedenti pronunzie di questa Adunanza plenaria si sorreggono su tre ordini di argomentazioni:
1) la formulazione letterale della norma non offre elementi determinanti per l’una o per l’altra soluzione;
2) si coglie una vistosa sproporzione fra il tempo offerto per decidere dell’avvio del procedimento disciplinare (180 giorni dalla notizia della sentenza) ed il termine per portarlo a conclusione. E, nel termine di novanta giorni, si contano sessanta giorni posti a garanzia dell’incolpato (venti per le giustificazioni: art. 105 del T.U. n. 3/1957; venti, per la visione degli atti: art. 111; venti per l’avviso di trattazione : art. 111, quarto comma). Ne rimangono, perciò, trenta all’Amministrazione. Secondo il principio di ragionevolezza, i due termini vanno perciò cumulati e si osserva, in tal modo, la finalità sollecitatoria desumibile dalla norma;
3) la soluzione del cumulo fra i due tempi in esame evita incongruenze rispetto ad altri casi. Basti aver riguardo a quelli nei quali il procedimento viene iniziato dopo una sentenza di proscioglimento (art. 97, terzo comma) o nei confronti di chi sia indenne da addebiti penali: l’unico termine che determina una caducazione del potere dell’amministrazione è quello di novanta giorni, che non deve essere superato, fra un atto e l’altro del procedimento.
7. Le osservazioni dell’ordinanza di remissione vanno lette anche alla stregua delle considerazioni e dei risultati interpretativi ora sintetizzati.
8. La formulazione letterale non offre argomenti decisivi a favore dell’una o dell’altra soluzione. Che il compimento dell’iter procedurale debba darsi nei “successivi” novanta giorni è locuzione che lascia all’interprete l’individuazione del momento al quale si agganciano gli ulteriori giorni prefissati dalla legge.
Sotto l’aspetto considerato, appare più precisa la formula della sopravvenuta legge 27 marzo 2001, n. 97, che ha recato nuove norme in tema di rapporto fra procedimento penale e disciplinare nei confronti dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni. Infatti, l’art. 5, comma 4, dispone, in proposito, che nei casi di sentenza irrevocabile di condanna nei confronti dei pubblici dipendenti, il procedimento disciplinare, che può condurre all’estinzione del rapporto di lavoro, deve avere inizio o essere proseguito, se sospeso, entro novanta giorni dalla comunicazione della sentenza stessa e si deve concludere entro centottanta giorni “decorrenti dal termine di inizio o di proseguimento”. Qui la precisazione della decorrenza del secondo spazio temporale dal termine d’inizio (non già dall’inizio, anche se anticipato) appare suffragare la tesi che, in complesso, all’amministrazione sono dati, cumulativamente, duecentosettanta giorni per il compimento delle sue attività.
Ma la miglior formulazione della norma sopravvenuta non consente, oggettivamente, di desumere argomenti a favore o contro la soluzione interpretativa che qui si riesamina.
Resta ferma, di conseguenza, la considerazione esposta nelle decisioni precedenti, circa l’inesistenza di elementi determinanti per accogliere un’interpretazione in uno o altro senso.
9. Si può, invece, concordare con l’osservazione che i due termini in discussione obbediscono ad esigenze diverse: l’inizio ed il compimento del procedimento disciplinare.
Ciò non esclude, tuttavia, che si tratti di termini interdipendenti o in rapporto di correlazione. Con ciascuno di essi è data una precisa garanzia all’incolpato. Per effetto del primo, è stabilito il tempo entro il quale l’impiegato può attendersi la contestazione degli addebiti e dopo il quale egli può ritenersi al riparo da interventi disciplinari. Per effetto del secondo, è fissato il tempo oltre il quale non è possibile la sanzione della destituzione.
Le diverse esigenze non pongono però i tempi dati all’Amministrazione in rapporto antitetico ed, anzi, la loro considerazione unitaria è giustificata anche dalla “consistenza” delle operazioni che, prima e durante il procedimento, devono essere compiute dall’una e dall’altra parte. Oggi, per effetto dell’art. 1, lett. c) della citata legge n. 97/2001 – che ha modificato l’art. 653 c.p.p. – la sentenza irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato, nel giudizio per responsabilità disciplinare, quanto a sussistenza del fatto accertato e sua illiceità penale, nonché quanto a sua riferibilità all’operato dell’impiegato. L’istruttoria, per i tre elementi di giudizio indicati, esigeva, invece e possibilmente, compimento di attività autonome da parte dell’amministrazione, con sicuro maggior dispendio di tempo. Non è ravvisabile, perciò, nessuna incoerenza nella considerazione di un termine unitario, rilevabile dall’agganciamento dei due spazi temporali in parola, per le attività di acquisizione e valutazione dei fatti, dapprima in via autonoma e, successivamente, in contraddittorio.
10. Le altre osservazioni delle tre precedenti decisioni, non esaminate dall’ordinanza di remissione, inducono anch’esse ad una conferma dell’orientamento a suo tempo espresso.
Occorre, infatti, far luogo ad un’interpretazione armonica, o non dissonante:
quanto al rapporto fra i due termini, sproporzionato, altrimenti, fra tempo dato per decidere sull’opportunità di dar inizio al procedimento e tempo lasciato per lo svolgimento di questo;
e quanto ad altre disposizioni, che nel medesimo “insieme” di norme – la disciplina degli impiegati pubblici ed il procedimento per l’irrogazione delle relative sanzioni – sarebbero irrazionalmente meno garantistiche nei riguardi di coloro che siano stati prosciolti o che siano stati indenni da addebiti in sede penale.
Rilevato, come s’è anticipato, che non è stato superato il termine complessivo di duecentosettanta giorni, del quale si è trattato, va respinto anche l’ultimo motivo dell’appello incidentale.
11. In conclusione, con la riforma parziale della sentenza appellata, pronunciata con la precedente decisione del ----omissis----del 24 gennaio 2000, n. 5, va anche disposta la reiezione integrale dell’appello incidentale.
Vi sono motivi per disporre la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Adunanza plenaria, respinge l’appello incidentale proposto dal sig. ----omissis----Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza plenaria), nella camera di consiglio del 10 novembre 2003, con l'intervento dei Signori: ----omissis----

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il.....................................
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione

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